Prima di fare la mia recensione, vorrei spiegare la mia personale accezione di «elegante» a scanso di equivoci: onde evitare cioè che il lessema possa indirizzare una certa area della ristorazione che - per contro non considero neanche degna di essere visitata, se non incidentalmente...e/o per eterogenesi dei fini.
Se qualcuno si fosse creato l'aspettativa - a partire dall'idea di «raffinatezza» ed «eleganza» ed «eleganza» - di ristoranti «stellati» in cui si sopravvalutata la pur dignitosa professionalità del cuoco con parole definizioni francesi e scemenze simili, ebbene si sarebbe sbagliato totalmente.
Se non per qualche errore o incidente di percorso, mai e poi mai mi siederei ad un tavolo di un esercizio (fatico anche a considerarlo ristoro) in cui all'astante sia fatto pagare l'affitto di un piatto (intendendo la stoviglia) troppo esuberante rispetto al miserrimo contenuto cui fa in genere da cornice: mi piace alzarmi dalla sedia sazio e soddisfatto el pasto che ho consumato.
Per me il design e tutte le corbellerie sull'artisticità del piatto - che giustificherebbero il trapasso di un'onesta professione artigianale verso l'olimpo dell'arte propriamente detta (sia che si tratti di quella figurativa, di musica, di letteratura, di danza, di poesia o di teatro) - non stanno ne' in cielo ne' in terra: la stoviglia - qualunque forma o dimensione abbia - deve essere riempita senza troppi fronzoli e/o arzigogoli, e non sembrare una piazzola per camper da otto posti colmata al centro con una tendina Chechua da due persone! Ne' ritengo che esistano fenomeni (vedi i vari Cracco, Barbieri, Bastianich, Cannavacciuolo e compagnia cantante) tali da passare per televisione a inoculare la detestabile idea classista che saper cucinare per qualcuno sia un mezzo di sussistenza e per qualche eletto l'albero della cuccagna.
Ben vengano gli «chef» Rubio che promuovono la cucina per camionisti, dunque.
Ciò premesso, vado a ragionare della Pizzeria da Felice che di felice ha veramente tutto: l'«eleganza» e la «raffinatezza» come indice di una soverchia semplicità - tipica da loft ottimamente restaurato - che non sarebbe neanche nelle mie corde artistiche (il post-industrial), non fosse che veramente ogni elemento si trova incastonato al suo posto con rigore, gusto e intelligenza (ivi inclusa la carta da parati, se non è un trompe-l'oeil); il tutto condito con un'illuminazione efficace ma gentile, con un ammobiliamento capace di dare ampiezza e vigore agli spazi ed un notevole senso di pulizia e di ordine.
Tutto ciò - unitamente alla cordialità, alla gentilezza ma anche alla familiarità del personale, rendono il tutto sobriamente incredibile.
La pizza al Castelmagno (che io ho soltanto assaggiato da mia moglie) è eccelsa, come impressionante è la scelta di questo formaggio delle valli occitane del Piemonte; quella a mortadella, pistacchio e burrata non vi dico.
Ottimi anche gli Spritz (e ottima idea di metterli all'inizio del menu), impressionante la fonduta di pecorini al tartufo!
Il menu è abbondante e complesso ma - così a naso - direi che tanto il cuoco quanto il pizzaiolo siano in grado di gestirlo e di renderlo il grande valore aggiunto!
Il risultato? Il miglior connubio di accoglienza in cui ci si possa imbattere, in barba a chi ama spendere centinaia di euro nei locali «eleganti» per antonomasia per riempirsi gli occhi di scarabocchi edibili e la pancia di poco o niente. Complimenti per questo equilibrio.Più