Nelle sue “Vite dei Cesari” lo storico Svetonio riferisce che nel giugno del 68 d.C. l’imperatore Nerone, ormai spodestato e braccato dai pretoriani, trovò precario rifugio nella villa di un suo ricco conoscente (il liberto Faonte) situata lungo la Via Cassia, a nord del centro abitato. La sua sorte, tuttavia, era ormai segnata: un drappello di soldati circondò la villa e Nerone, persa ormai ogni speranza di fuga, preferì uccidersi con un pugnalata. Il liberto Epafrodito, rimastogli fino all’ultimo fedele, fu testimone delle sue ultime vanagloriose parole: “Quale artista muore con me!”
Mentre Servio Sulpicio Galba (il nuovo imperatore) saliva al trono il Senato decretò la “Damnatio Memoriae” di Nerone: ogni suo ricordo doveva sparire, le effigi, le iscrizioni, i monumenti a lui dedicati dovevano essere distrutti. Tuttavia, ai parenti e in particolare alla sua devota concubina Atte, fu dato il permesso di conservare le ceneri del defunto nel sepolcro di famiglia: l’Arca dei Domizi Enobarbi, allora situata in un’area disabitata e paludosa lungo la Via Flaminia (corrispondente all’attuale Piazza del Popolo).
Anche dopo la caduta dell’impero romano le autorità ecclesiastiche esecrarono e demonizzarono la figura di Nerone (“malvagio persecutore dei primi fedeli”) sino a identificarla con l’Anticristo. Il popolino invece, nella convinzione che lo spirito del personaggio aleggiasse ancora nella zona della sepoltura, sviluppò nei suoi confronti una sorta di venerazione più o meno clandestina. Soprattutto per questo, nell’XI secolo, papa Pasquale II fece demolire l’antico sepolcro costruendovi sopra la Chiesa di Santa Maria del Popolo. Le ceneri di Nerone furono probabilmente gettate nel Tevere, ma la superstizione popolare, dura a morire, continuò ostinatamente a credere che ciò che restava dell’ex imperatore fosse stato traslato in un altro antico sepolcro, situato ben fuori dalla città, al sesto chilometro della Via Cassia. Qualche pellegrino infatti continuò a portare omaggi a Nerone in questa “sua nuova sepoltura”. Probabilmente la leggenda fu diffusa ad arte dallo stesso pontefice, nel timore di una rivolta popolare. Il sarcofago divenne quindi noto come “Tomba di Nerone” e ugual nome indica ancora oggi la zona limitrofa.
In realtà il monumento, risalente III secolo dopo Cristo, conteneva le spoglie di Publio Vibio Mariano (Procuratore della Provincia di Sardegna e Prefetto della Seconda Legione Italica) e della moglie di costui Regina Maxima. Lo si riesce ancora a leggere nell’iscrizione della facciata, che riporta per sommi capi la biografia del personaggio. Il manufatto, eretto per iniziativa della figlia della coppia, Vibia Maria Maxima, consiste di un massiccio sarcofago di travertino istoriato da bassorilievi e poggiato su una base di mattoni, anch’essa in origine rivestita di marmi. La struttura è coronata da un coperchio a tetto, arricchito da alcune tipiche decorazioni a forma di ogiva (dette “acroteri”) riccamente lavorate a bassorilievi. E’ interessante notare che la facciata principale del sepolcro è rivolta verso la vecchia Via Cassia, ovvero dalla parte opposta alla strada attuale. Com’è logico attendersi, nessun dettaglio del monumento allude minimamente alla figura di Nerone.
Il sito, protetto soltanto da una bassa ringhiera in ferro e da alcune reti metalliche, si trova oggi ben all’interno della cerchia urbana. Le condizioni di conservazione sono piuttosto buone. Un piccolo pannello spiega ai visitatori la reale natura del manufatto e la curiosa leggenda che si è sviluppata intorno ad esso.
Da ricordare anche il sonetto che il poeta dialettale Giuseppe Gioacchino Belli dedicò a questo sepolcro: una spassosa e ironica difesa della superstizione popolare.